NAPOLI, UN’EDUCATIVA SOTTO CASA
Come il servizio sociale di una città grande come Napoli si mette in un’attitudine di ricerca per apprendere nuove forme di attività? Ce ne parla Immacolata Guarracino Referente Territoriale di P.I.P.P.I. che mostra il grande potere del racconto fatto dalle stesse famiglie che possono testimoniare come le cose a un certo punto sono cambiate. Partendo dallo stigma iniziale della vergogna e aprendosi a una relazione di fiducia: è la famiglia accompagnata che porta le altre famiglie del suo palazzo, presentandole all’educatore responsabile dell’educativa domiciliare per quella famiglia.
Come è nata questa forma di educativa domiciliare di comunità e come si colloca nell’insieme di implementazione di P.I.P.P.I.?
Ci siamo arrivati devo dire durante le GAR locali territoriali (Giornate di Approfondimento Residenziale previste nel modulo avanzato del Programma) di P.I.P.P.I. perché raccontarci le esperienze nella nostra équipe ordinaria fa un po’ cadere gli elementi di novità, ci sembrano normali; invece, quando li raccontiamo a persone che lavorano in contesti diversi ci aiutano a tirare fuori le peculiarità del nostro territorio.
Che esperienza avete portato?
Noi ragionavamo già con l’équipe su questa questione delle fasi dell’educativa domiciliare: a partire da quella che abbiamo sempre chiamata come la fase della resistenza, in cui la famiglia non si affida, non vuole l’educatore dentro il contesto domiciliare, a casa, perché l’educatore entra nella sua quotidianità. Abbiamo sempre ragionato su quali strategie adottare. Così una modalità era quella di non attivare subito l’educativa domiciliare: noi la possiamo prevedere, ma facciamo in modo che la famiglia venga fuori, al servizio, conosca l’educatore, così iniziamo un po’ a lavorare insieme e poi entriamo in casa.
Invece che avete osservato di nuovo?
Quando abbiamo fatto incontrare le famiglie uscenti di un’annualità di P.I.P.P.I. con le famiglie che invece dovevano entrare nella successiva, è emerso un loro grande potere motivazionale. Nessuno dei nostri operatori sarebbe riuscito a spiegare meglio che cos’è P.I.P.P.I. e che obiettivi può avere. Le famiglie che uscivano hanno portato la loro esperienza: sono state molto generose nel racconto delle loro emozioni, si sono messe a nudo e quindi hanno un po’ rivissuto con il gruppo il loro percorso di educativa domiciliare, non risparmiando le criticità. Hanno riconosciuto che all’inizio non vedevano di buon occhio l’educatore, perché per loro dietro a lui c’era il servizio sociale, e quindi quest’idea della spia, di una persona che entra e poi riferisce al servizio sociale. Pensiamo a tutto il lavoro sulla fiducia che era impossibile fare perché si è convinti che “io non mi posso aprire con quell’operatore perché poi lui va al servizio sociale e io non sarò mai me stesso”.
Ma a un certo punto hanno raccontato di come hanno accettato l’educatore, quando hanno capito che in questa relazione con i figli, lui aveva dato una chiave di lettura diversa, aveva aiutato a leggere un’altra modalità di interazione. Ci hanno fatto un po’ ripercorrere la linea del tempo dell’educativa domiciliare: dall’inizio quando l’educatore è visto come un nemico, e poi man mano, a metà del percorso o, quasi sempre verso la fine, ci si apre e si inizia a creare questa relazione per cui le persone si affidano e alla fine si dispiacciono quasi di concludere l’accompagnamento.
Cosa vi riferivano gli operatori?
Gli educatori ci riportavano questo elemento di come evolve la relazione, ci raccontavano che la famiglia addirittura portava i “clienti” cioè le altre famiglie. Qualcuno diceva: “Io poi quando sono andata a fare l’educativa, per esempio a casa di Maria, lei mi ha parlato della sua vicina di casa che ha questi tre bambini e mi ha chiesto: ma non è che ci puoi parlare un po’ anche tu con lei così capiamo se puoi fare delle cose?”. Oppure qualche altro operatore riferiva: “Mi hanno aspettato giù dal palazzo e mi hanno fatto trovare già l’altra signora e mi hanno detto: puoi parlare con lei perché ha un problema simile a quello che avevo io col mio bambino e io le ho detto che se le parli tu, poi insieme potete lavorare su alcuni aspetti”.
Insomma, l’educatore domiciliare si è trasformato in educatore di condominio?
Insieme all’équipe abbiamo ragionato su quanto l’azione di quell’educatore domiciliare, che, anche se è in una casa che è confinata da quattro mura, in realtà esce anche fuori da quella casa ed arriva al contesto che noi abbiamo chiamato contesto condominiale.
Come si collega con l’implementazione di P.I.P.P.I.?
Come amministrazione comunale abbiamo scelto di fare P.I.P.P.I. in due territori della città che sono particolarmente esposti alla marginalità. Uno è la settima municipalità, un quartiere molto al limite, in periferia, dove ci sono pochi contesti aggregativi, che soffre un’arretratezza culturale ancora molto forte, con poca emancipazione. Inoltre, ha una conformazione specifica del territorio: ci sono dei palazzi vecchi, non ristrutturati, che hanno in mezzo un cortile, con i vari accessi alle case singole. Quando l’educatore dava l’appuntamento alla famiglia, ancora capita che la famiglia dice “no, se vieni alle tre non va bene perché tutti dormono, sentono di più, perché sono a casa e subito dopo pranzo ti possono vedere e sentire più facilmente. Vieni più tardi perché allora la gente esce, va a fare la spesa e quindi non ti sentono”. Abbiamo ragionato partendo dallo stigma iniziale della vergogna che le famiglie sentivano di avere, “non venire a casa mia perché io mi vergogno, gli altri non devono sapere che da me viene l’educatore domiciliare; il fatto che tu venga a casa mia vuol dire che io non sono un bravo genitore, e che non so fare qualcosa”. Abbiamo visto l’evoluzione: alla fine del percorso addirittura tu riesci a parlarne con i tuoi vicini di casa e con le altre famiglie, ma anche sensibilizzi le altre famiglie alle problematiche.
C’è stata anche una consapevolezza degli stessi operatori?
Quando gli operatori hanno iniziato a condividerlo tra loro, ha poi avuto risonanza negli altri. Abbiamo ragionato su quest’idea dell’educatore di comunità e su come possiamo – perché è tutto in fase di costruzione – formalizzarla e costruirla. Ci siamo chiesti: adesso l’operatore che fa? Se ti trovi la signora giù dal palazzo, cosa fai? Se rispondi subito togli il tempo all’accompagnamento previsto; inoltre non siamo un amico, dobbiamo fare attenzione a non dare la consulenza. Quindi abbiamo optato per la via dell’accoglienza: accogliamo, manteniamo questa apertura nei confronti della famiglia, ma rimandiamo poi ad uno spazio dedicato, quindi la invitiamo al servizio, le parliamo e cerchiamo di approfondire insieme.
Quale metodologia di P.I.P.P.I. vi ha aiutato in questa evoluzione?
Devo dire la partecipazione: abbiamo sempre ragionato su come tenere in qualche modo dentro alla programmazione degli interventi la voce delle famiglie. In apertura abbiamo lavorato con lo strumento dello SWOT (Strengths, Weaknesses, Opportunities, Threats: punti di forza, di debolezza, opportunità, minacce). Chiediamo alla famiglia: ma tu quale pensi che sia il tuo problema? Qual è la criticità che vedi? Qual è l’opportunità che pensi di avere per risolvere questo? È l’idea di coinvolgimento e partecipazione della famiglia che ancora di più ci è sembrata molto viva quando poi abbiamo avuto le restituzioni delle altre famiglie che stavano uscendo dal Programma con delle competenze acquisite. Ci siamo detti: loro devono avere un ruolo. Abbiamo pensato di dare alla fine del percorso di educativa domiciliare un attestato al genitore, quasi un diploma del genitore esperto, competente. E inoltre negli altri gruppi di nuova costituzione invitiamo questi genitori esperti affinché possano raccontare la propria esperienza. Devo dire che è stata un’esperienza meravigliosa.
State pensando di dare una cornice più strutturata a questa figura di “educatore di condominio”?
Sì, l’idea su cui stavamo lavorando è quella di provare a formalizzare la figura dell’educatore di condominio. Vorremmo provare a fare un incontro una volta al mese, o una volta ogni due mesi, nella corte. Nei poli per le famiglie, questa struttura in cui abbiamo incardinato P.I.P.P.I., lavoriamo non solo con i gruppi genitori, ma abbiamo proposto dei percorsi che sono un po’ più a bassa soglia: facciamo dei cicli informativi, formativi, oppure anche delle semplici giornate dove andiamo fuori, per esempio nel parco cittadino, nella villa comunale, e invitiamo tutti i genitori. Magari ragioniamo su com’è difficile giocare con i bambini dai tre a quattro anni, cioè proposte semplici e che possano avvicinare più famiglie. Allo stesso modo vorremmo provare a fare un incontro nella corte, magari insieme al genitore esperto che lo pubblicizza ai vari condomini e poi l’educatore un pomeriggio si fa trovare lì. Questa formula dobbiamo ancora sperimentarla.
Qual è la presenza di P.I.P.P.I nel Comune di Napoli?
Adesso abbiamo avviato il Programma P.I.P.P.I. in quattro municipalità del Comune di Napoli. Ogni municipalità ha un servizio strutturato e in due di queste abbiamo incardinato P.I.P.P.I. In questi territori, nella settima municipalità, abbiamo tipo 30 famiglie che fanno educativa domiciliare, nell’altra, nella quarta municipalità, più o meno 15 famiglie che fanno educativa domiciliare. In ogni servizio, ovvero il Polo per le famiglie dove abbiamo anche i P.I.P.P.I., c’è un’équipe più o meno di 10-11 operatori. Quindi abbiamo un coordinatore che può essere un assistente sociale, un educatore o uno psicologo. Poi c’è l’assistente sociale, in genere due o tre psicologi e poi quattro o cinque educatori, dipende dalla numerosità.
Quindi il perno sono le équipe multidisciplinari?
Assolutamente, è un lavoro multidisciplinare. Noi abbiamo un regolamento, ci siamo dati un po’ le nostre linee di funzionamento dell’educativa domiciliare. C’è sempre l’educatore, lo psicologo o l’assistente sociale che devono lavorare insieme e non si lavora mai su una parte o sull’altra della famiglia. Ci sono sempre momenti congiunti, dove si lavora con la diade, quindi con la relazione genitoriale.
Qual è la tua esperienza di lavoro sociale? Come è cambiato? P.I.P.P.I. come ha agito?
Lavoro nel servizio sociale dal 2008, prima presso il comune di Casal di Principe e di Castelvolturno nel casertano, poi sono arrivata a Napoli nel 2010. Quindi adesso sono 15 anni. Abbiamo fatto dei grandi passi avanti. Nel 2010 non c’era un servizio strutturato per le famiglie: i Poli Territoriali per le Famiglie sono nati nel 2016. Quando sono arrivata c’era già un’annualità, proprio P.I.P.P.I.1, poi la seconda non è stata fatta e io sono diventata il coach referente territoriale di P.I.P.P.I.3; nel 2013-2014 abbiamo fatto P.I.P.P.I.3, 4 e 5. In seguito abbiamo deciso di uscire dalla sperimentazione, perché P.I.P.P.I. allora era ancora una sperimentazione e non era LEPS. Dicevamo che le sperimentazioni, soprattutto in un territorio tanto grande, hanno senso se tu sperimenti e poi provi a prendere le cose di quella sperimentazione e adattarle al tuo contesto territoriale. Da lì sono nati i Poli Territoriali per le Famiglie, in un avviso del 2016. Già nell’avviso pubblico abbiamo dichiarato che quello che stavamo costruendo nasceva dall’esperienza che avevamo maturato nel programma P.I.P.P.I. Oggi la strutturazione dei Poli ha diverse linee di azione, nel progetto in favore delle famiglie ci sono più dispositivi secondo la teoria ecologica di Bronfenbrenner, che abbiamo assunto e adattato da P.I.P.P.I. Facciamo P.I.P.P.I. “solo” in quattro quartieri, però quel modello è passato in tutta la città. L’idea di incardinare P.I.P.P.I. dentro un servizio stabile è un po’ la chiave di svolta. Quando siamo ritornati in P.I.P.P.I. in quanto LEPS, nelle implementazioni P.I.P.P.I.11, 12 e 13, noto, avendolo seguito dall’inizio di avere intorno un servizio strutturato. Adesso è molto più agevole, perché tu hai un servizio che si occupa di genitorialità e poi abbiamo alla base un modello comune. Certo abbiamo tanto ancora da migliorare!
Qual è il passo che aspireresti a fare, a far fare i servizi?
Sicuramente c’è il lavorare di più su quest’ottica di operatore di comunità che ci ha molto affascinato. Uno dei problemi è l’ingaggio, tra famiglie P.I.P.P.I. e famiglie non P.I.P.P.I.; è molto difficile dire alle famiglie: adesso tu però mi firmi questo consenso perché devi aderire al programma nazionale. Molti ci riferiscono che poi la famiglia va sul web, scrive P.I.P.P.I., legge: “prevenzione dell’istituzionalizzazione” e ritorna spaventata. Mentre penso che la figura dell’educatore di condominio possa in qualche modo aiutarci a lavorare nel contesto territoriale, nel contesto comunitario.
Un altro passo da fare è anche il rapporto con la scuola. Ci abbiamo provato, ma i pochi insegnanti, i pochi referenti scolastici che abbiamo in P.I.P.P.I., li abbiamo non perché la scuola si è resa collaborativa, ma perché abbiamo trovato delle persone sensibili nella gestione dell’intervento. Ci piacerebbe provare a rendere anche quella una linea più strutturata e confidiamo molto in questo lavoro che stiamo facendo adesso con i servizi educativi perché finalmente l’area welfare e l’area dei servizi educativi del Comune di Napoli si sono parlati e stiamo lavorando sull’idea di che cosa vuol dire fare educazione nei diversi contesti. Per esempio: come fa educazione un centro diurno, un laboratorio di educativa territoriale, un polo per le famiglie, gli operatori di P.I.P.P.I. e come devono però collaborare tra di loro.
C’è all’orizzonte un movimento anche verso il sanitario e l’area della giustizia minorile?
Attualmente stiamo collaborando moltissimo con il Tribunale ordinario, perché seguiamo tutta la parte delle vicende separative e conflittuali e quindi alla luce della legge Cartabia stiamo riscrivendo insieme al Tribunale ordinario un protocollo di intesa, essendo tutta la parte del processo civile un po’ rivista. Abbiamo riconvocato l’ASL e stiamo molto lavorando. Il problema è che quando ci arriva un’indicazione di valutazione delle competenze genitoriali, l’ASL non sempre prova a riformulare l’intervento, mandandola all’area sociale. Ci dicono: fate l’educativa domiciliare e noi siamo ogni volta a spiegare che c’è una differenza. Non ci piace scomporre la genitorialità, però c’è una parte psicologica su cui deve lavorare l’ASL. Poi certo va ricomposta la parte educativa della genitorialità.
Il sanitario invece rinvia all’educativo e quindi ci troviamo che i nostri servizi ormai hanno tante richieste. Adesso l’indicazione che l’ordine professionale degli psicologi dà, a Napoli, è che gli psicologi non devono fare la valutazione delle competenze genitoriali perché la famiglia la deve richiedere, in quanto è un lavoro così intimo che deve essere voluto.
Penso che questa indicazione debba far cambiare il modello organizzativo: se il Tribunale prescrive questa valutazione, inserendola nei decreti, il Servizio Sociale poi a chi la dovrebbe richiedere? Accompagnare la motivazione della famiglia a partecipare a questa azione valutativa è un compito che dobbiamo far diventare dell’intera équipe multidisciplinare. Inoltre, dobbiamo ancora lavorare bene sulla funzione dello psicologo nell’équipe multidisciplinare: non può fare il lavoro che farebbe lo psicologo dell’ASL, ma ci deve aiutare innanzitutto nella lettura del bisogno e quindi contribuire a leggere integramente quel bisogno, non spezzettare la famiglia, ma mettere insieme la nostra parte di sociale, la parte educativa e anche la parte psicologica. Lo psicologo sta là perché integra la visione dell’équipe multidisciplinare. Questi sono i punti su cui vogliamo ancora lavorare.
L’esperienza di educativa in ottica di comunità è stata uno dei contributi presentati nella giornata dell’Unconference, il 15 maggio a Montegrotto (Padova): uno spazio per raccontare e confrontarsi sui progetti di innovazione degli ambiti, nelle dimensioni di ricerca qualitativa, partecipata e trasformativa che ha coinvolto gli oltre 70 componenti dei laboratori territoriali di P.I.P.P.I.12 e 13, provenienti da tutta Italia.
Il LEPS P.I.P.P.I. in quanto Programma nazionale va contestualizzato dentro un determinato territorio, in una specifica realtà. Per questo l’obiettivo dei LabT è valorizzare la conoscenza situata, prodotta dalle persone che conoscono il lavoro sociale ed educativo, per sperimentare nuove dimensioni di P.I.P.P.I. nei diversi contesti.
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