Dal campo

Da Gagliano del Capo: fare spazio, ascoltarsi

A partire da una segnalazione di difficoltà, il delicato cammino dell’affidarsi e del ricostruire la capacità di esprimersi, per un intero nucleo familiare, superando il timore. È il percorso di Simone, della sua mamma e di una rete di professionisti che fa ripartire la speranza. All’inizio, il bambino di 9 anni ha fatto un po’ fatica, lasciava che si esprimessero i compagni, poi forse ha sentito che poteva dirlo: “Per me il giorno più triste della mia vita è stato quando mio padre ci ha abbandonati, se n’è andato via e sono arrabbiato perché mio padre non c’è”. Attraverso le parole, attraverso un bigliettino, ha espresso anche la rabbia. Nell’intervento a scuola e in tutta l’articolata integrazione dei dispositivi, l’accompagnamento dedicato trova riscontro finale nelle parole della mamma: “Il Programma P.I.P.P.I. sicuramente è stato motivo di ritrovarsi tra noi familiari, la possibilità di confrontarci su argomenti che sembravano impossibili da affrontare. Grazie al personale competente che ci ha seguiti, abbiamo avuto dei miglioramenti. Grazie a tutti”. Ripercorriamo l’intervento con il racconto delle diverse professioniste coinvolte nell’equipe multidisciplinare.

L’intervento si è avviato grazie a due segnalazioni. La prima viene dalla sorella, insieme al padre. La madre si era separata dal padre circa due anni prima, e poi ha conosciuto un uomo tramite i social, in un rapporto virtuale in cui partecipavano anche i ragazzi. A un certo punto i due decidono di incontrarsi, il signore si trasferisce e la donna lo ospita direttamente in casa. La figlia che all’epoca aveva 16 anni, molto matura, fa presente che non era felice, preferiva che prendesse un’altra casa almeno per i primi tempi. Per questo la ragazza ne ha parlato al padre e sono andati ai servizi per esprimere le loro perplessità. Dall’altra parte, arriva una segnalazione dalla scuola, in seguito ad un episodio di scontro avvenuto con un compagno.

Ci siamo concentrati su di lui. Per prima cosa ho parlato con tutta la famiglia, per capire cosa si aspettassero, cosa per loro era importante. In momenti diversi e anche contemporaneamente ho cercato di suscitare la fiducia nel bambino e nella mamma, che all’inizio era molto diffidente.  È vero che ha accettato di partecipare in modo volontario al programma P.I.P.P.I. però, in quel periodo, c’erano le udienze per la separazione e un po’ si è sentita condizionata. Abbiamo usato le “tavole rotonde” quando ci si sedeva tutti intorno, specie i due figli, la mamma e l’educatrice; il compagno non sempre partecipava, oppure appariva e usava queste “tavole” come sfogo per dire tutto quello che, secondo lui, non funzionava. Abbiamo cominciato a chiarire che il bambino non “è” il problema, semmai il suo “comportamento”, mai lui. Mi sono ritagliata dei momenti con il bambino per fare delle attività, dei laboratori artistici. E poi con la madre, molto sola, che non dispone di una grande rete intorno a sé: prendevamo insieme il caffè, facendo due chiacchiere per entrare un po’ più nel profondo. Ha cominciato a nutrire grande fiducia, si è aperta, al punto da confidare le sue paure, anche sul compagno. 

Il timore, il lavoro sull’ascolto. La madre temeva che la sua fatica arrivasse ai servizi. Allora le ho detto: “Posso tenermi un tuo sfogo per me, ma se ritengo che ci sia qualcosa che mette in pericolo te o il bambino, io lo devo dire”. Volevo lasciare a lei la scelta di decidere se correre il rischio oppure no. Lei si è aperta, ne aveva bisogno. Quando le ho chiesto se volesse che andassimo insieme dal servizio sociale, senza parlare, ha annuito con la testa. Lì ho colto l’occasione, volevo che avesse un appoggio. Il suo timore era che, se mostrava le sue debolezze, l’assistente sociale poteva dire che non era una buona madre. Così con l’assistente sociale ho osato e ho detto: “È vero che non c’è niente di male se una mamma ti fa vedere che fa fatica e ti chiede aiuto? Non per questo le verrà tolto il figlio, vero?”. Ho sottolineato questo passaggio, in quel momento. L’assistente sociale l’ha rassicurata e da quel momento la madre si è affidata. Abbiamo fatto un grande lavoro sull’ascolto: la madre e il compagno dicevano che il comportamento del bambino era oppositivo, alla fine è risultato che il bambino assumeva questi atteggiamenti perché si sentiva escluso dalle decisioni. Non gli era mai stato spiegato perché la mamma si era separata dal padre. È un bambino con un’intelligenza emotiva davvero fuori dal comune per la sua età e anche rispetto a molti adulti. Questo è stato l’inizio, ma già anche in un certo senso la prima parte del percorso: c’era già un’evoluzione, avevamo promosso la capacità di esprimersi, superando il timore. (Serena Schirinzi educatrice)

Diventare dei “contenitori emotivi”. Il bambino non era proprio compreso, non c’era né comunicazione verbale, né emotiva in quel nucleo. Provava delle emozioni, ma non aveva ancora le capacità di elaborarle e di esprimerle in modo corretto. Allora magari l’atteggiamento era un po’ provocatorio, per far comprendere che aveva bisogno di essere accolto, ma non trovava riscontro in casa. Abbiamo lavorato molto con la madre e il compagno per imparare prima di tutto a diventare dei “contenitori emotivi” e poi sulla comunicazione. Alla fine, questo percorso ci ha dato un bel risultato. Anche il lavoro a scuola è stato importate perché era proprio “sulle” emozioni e questo a Simone è servito molto. (Serena Ruberti psicologa)

Il lavoro sulle emozioni. A scuola Simone era riuscito a tirare fuori la rabbia che provava, anche la tristezza. All’inizio ha fatto un po’ fatica, ma ha partecipato molto attivamente, gli è piaciuto tantissimo e ha dato un riscontro positivo. Tra l’altro questa esperienza nella scuola, per lui e per i compagni, è stata utile: “adesso sappiamo perché a volte assumi certi comportamenti. Adesso ti conosciamo meglio, sappiamo perché ti arrabbi apparentemente senza motivo o dici cose magari per offendere” hanno riconosciuto. È stata un’esperienza importante sia per noi che per loro. (Daniela Marra educatrice)

Siamo stati tutti bambini. Là ha trovato il suo “contenitore” dove poter mettere la sua emozione, un po’ come il pentolino di Antonino. L’errore che fa l’adulto è che dimentica di essere stato un bambino. Forse lo sentono, ma non lo ascoltano. Lui in casa non si sentiva ascoltato davvero. In un’équipe raccontava di un’ingiustizia fatta su di lui, ma tutti lo prendevano un po’ in giro, non lo ascoltavano davvero e la madre chiamava questa reazione “rabbia”, mentre era delusione, un sentirsi incompreso, tristezza per un’ingiustizia subita. Che, magari, scaturisce in rabbia e aggressività se non viene accolta. (Serena Ruberti psicologa)

Avvicinamento, lo spirito di P.I.P.P.I. In questa famiglia l’approccio di P.I.P.P.I. ci ha aiutato tanto, abbiamo cominciato entrando con il servizio di educativa domiciliare e territoriale, poi allargando alla partecipazione della famiglia, del bambino, della scuola, abbiamo potuto lavorare su più fronti. Durante un incontro conclusivo di saluto, molto bello, eravamo tutti seduti intorno a un tavolo, per dare a Simone la possibilità di raccontarsi, di esprimersi, ma anche agli adulti, perché in questo nucleo erano presenti delle vulnerabilità importanti, nella madre e nel padre, che erano concentrati sulle loro. Invece P.I.P.P.I. ha riportato il focus sui bisogni di Simone e la madre ci ha seguite alla grande, grazie a un avvicinamento, alla costruzione di una relazione di fiducia e di empatia. E anche la mamma ci ha messo del suo. Questo è lo spirito di P.I.P.P.I.: noi abbiamo condiviso, abbiamo co-costruito insieme alla mamma ciò che serviva al bambino. Noi abbiamo fatto rete, ma nel corso dell’intervento, ci siamo anche sentite accolte dalla famiglia! Siamo stati anche a casa del papà e siamo riuscite a costruire un ponte anche con lui. L’empatia dell’assistente sociale è stata molto, molto importante. Adesso assieme alla mamma Simone ha avviato un percorso presso un centro servizi per la famiglia. Quel senso di fiducia cresciuto nei confronti dei servizi ha permesso alla mamma di lavorare ancora di più ed è migliorato molto il rapporto con il servizio sociale. Adesso sa che nel momento in cui ha delle difficoltà, comunque può andare in modo autonomo dall’assistente sociale. (Vania Bolognese assistente sociale, coordinatrice del terzo settore)

Testimonianza raccolta con Serena Schirinzi educatrice che ha realizzato il servizio di educativa domiciliare e territoriale, Vania Bolognese assistente sociale, coordinatrice del terzo settore (nell’ambito di Gagliano il Programma P.I.P.P.I è stato affidato a tre cooperative in coprogettazione), Daniela Marra educatrice coinvolta nel dispositivo partenariato scuola-famiglie-servizi, nel progetto Inside Out realizzato in ogni classe; Serena Ruberti psicologa, Lucia Ciullo Referente Territoriale, Daniela De Giorgi coach, insieme espressione dell’equipe multidisciplinare P.I.P.P.I..

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