“Le mamme vere, in carne ed ossa, le ho sempre trovate anche felici, ma non solo felici” osserva Mariagrazia Contini, docente e autrice di numerosi libri di pedagogia e di educazione e ora documentarista. Ma allora su cosa si fonda il gioco degli equivoci che vorrebbe i nove mesi dopo il parto “solo” lieti? Come influisce nelle situazioni di isolamento, povertà sociale e educativa? Ne parliamo con l’autrice del docufilm I nove mesi dopodisponibile su Raiplay: il racconto, delicato ed emozionate, di quattro mamme nei nove mesi dopo l’evento del parto.
Il docufilm I nove mesi dopo propone un viaggio nelle storie di quattro mamme per dare voce a fatiche, soprese, equivoci di un tempo considerato “felice” e tuttavia estremamente complesso. Ce ne parla la regista Mariagrazia Contini che ha firmato il lavoro prodotto da IBC Movie, in collaborazione con RAI Cinema e il sostegno della Regione Emilia-Romagna, insieme a Paolo Marzoni e Vito Palmieri.
Mariagrazia Contini su che cosa si fonda questo gioco degli equivoci che i nove mesi dopo il parto dovrebbero essere “solo” lieti?
Ho lavorato molto con genitori e con mamme che avevano avuto bambini da poco, con le educatrici dei nidi, sono stata a lungo a contatto con le giovani e le neomamme. In Emilia ci sono molti servizi per la neo-genitorialità. Ho notato uno scarto molto forte tra quella che è la rappresentazione, la narrazione sociale della neo-genitorialità, della neo-maternità e quella che è la loro esperienza. La rappresentazione coincide con quella che io dico prescrizione di felicità: “chissà come sei felice, come è bello!”, “Ah, che meraviglia adesso che hai il bambino!”. È tutto in quella direzione. Le mamme vere, in carne ed ossa, le ho sempre trovate anchefelici, ma non solo felici. Ho trovato che ci fosse sempre un ricco chiaro-scuro di emozioni. E quelle che erano di colore un po’ meno entusiasta, un pochino più problematico erano emozioni che poi non venivano dette, cioè, di inadeguatezza, di paura di non farcela, anche di stupore come di qualcosa di inatteso, come se le mamme avessero pensato che sarebbe stato diverso. Ma siccome intorno c’è questo coro che dice “chissà come sei contenta” succede che loro si colpevolizzano, pensano di essere le uniche, di essere sbagliate. Vivono quindi una frustrazione e un silenzio: non si dicono. C’è un periodo breve di baby blues che è concesso perché c’è il calo degli ormoni, ma dopo bisogna essere pimpanti. Se uno non lo è, c’è subito la diagnosi, la depressione post partum, la medicalizzazione, bisogna andare dal medico e farsi dare le medicine. Quindi le neo-mamme hanno paura, stanno zitte, si vergognano e si sentono sbagliate e comincia quel momento di solitudine che è molto pesante, faticoso e ingiusto.
Penso infatti che tutto questo coro del “chissà come sei contenta” sia veramente un modo di deresponsabilizzarsi da parte da un lato di familiari e amiche intime e dall’altro dei servizi sociali che dovrebbero accompagnare. Lo dice una delle protagoniste: “Ho capito che dopo il parto non si può essere sole, bisogna farsi aiutare”. È una delle due mamme e loro, in coppia, si sono aiutate tanto. A casa loro si respirava un’aria rilassata, la bimba non piangeva mai, mangiava, dormiva, rideva. Quando eravamo a casa di Lucy la ragazza più sfortunata, c’era il bimbo che piangeva in continuazione e c’era lei che era devastata, in una solitudine totale. Mi ha fatto impressione: lei aveva il bimbo più grande che andava già alla scuola dell’infanzia: ci fosse stato qualcuno, un’altra mamma, una delle insegnanti, che le avesse rivolto la parola: mai nessuno. Infatti ci ho tenuto a farla vedere che cammina sola, per la strada, nella periferia di Bergamo, proprio subito dopo che l’altra mamma dice “ho capito che non si può essere sole”.
Come legge i messaggi intorno alla maternità?
Quello che circola come messaggio dominante è sempre un massaggio che veicola il “dovere” di stare bene, di essere felici, di essere pimpanti, di essere belli, di esser giovani, di essere eleganti, di essere tutto. Quando viene presentata la maternità, viene presentata in quest’ottica, con un bambino radioso, sempre privo di problematicità. Nello stesso tempo però circola l’altro messaggio di problematicità che le donne, le mamme si dicono l’un l’altra e che è vero: da un lato è normale quello che loro provano, dall’altro è accentuato. È come se non se lo fossero aspettate: si aspettano qualcosa di meraviglioso, stupendo, felice, tutto cuoricini e fiorellini. Invece non è così. Quindi da un lato c’è il bisogno di corrispondere all’ideale della donna bella, giovane, pimpante, allegra, felice, realizzata, e dall’altro l’incapacità di star dietro a questo modello. Sono due narrazioni parallele che vanno avanti nello stesso modo: una esageratamente trionfalistica, e una forse esageratamente problematicizzata, ma per modo di dire, perché è legata a reali condizionamenti. In questo momento storico, per tutti noi, c’è un impoverimento di esperienze, di pensiero, spesso banalizzato, con condizionamenti tremendi di cui spesso non ci si rende conto.
Come ha vissuto questi incontri con le neo-mamme?
In questo viaggio ho sentito proprio tanta simpatia per le neo-mamme perché si trovano smarrite e non c’è qualcuno vicino che le accompagni, che gli dia il senso che appunto è normale avere queste sensazioni, pensieri, emozioni, e che poi c’è un cambiamento, che le cose evolvono. Ho visto un docufilm “Papà ha bruciato i biscotti” che tratta il tema dei papà, molto bello perché è dal punto di vista dei papà che si sentono un po’ marginalizzati, che nessuno tiene conto della loro esperienza. Se per esempio ci fosse un congedo significativo per i papà che diventano papà, quindi ci fosse questa facilitazione di condivisione tra papà e mamma delle prime esperienze, potrebbe essere interessante condividere le esperienze di quel periodo.
Che immagine ha cercato di dare di queste mamme?
Non voglio dare l’impressione delle neo-mamme come di persone incapaci, malate, ma come persone che hanno dei vissuti molto complessi perché l’esperienza è complessa. Credo che avrebbero bisogno di essere insieme a qualcuno e rispecchiarsi nello sguardo dell’altro. Si fa molta retorica sulla famiglia, ma quelli che sono gli aiuti, le possibilità di accompagnamento, poi, mancano. In Emilia abbiamo il centro famiglie con il punto neo-genitorialità e non ho trovato in nessun’altra parte d’Italia questa diffusione di servizi. C’è tanto, però non basta. Abbiamo tanto discusso con le educatrici, le responsabili dei centri famiglia: è ancora difficile intercettare le situazioni più fragili che oggi sono le donne straniere, o in particolari situazioni: perché più sono fragili, più queste mamme non hanno la capacità di chiedere e quindi non si rivolgono ai servizi. Però quella è la strada, invece che fare il corso pre-parto, bisognerebbe fare il post- parto! Offire un momento in cui qualcuno va a casa, non perché sei malato: vengo perché è previsto, sto con te un po’ e se sono una professionista brava, percepisco anche se hai qualche punto di sofferenza.
In definitiva qual è la comprensione della maternità da acquisire?
È necessario portare alla comprensione della complessità di un’esperienza che ha veramente molte sfaccettature. La maternità porta con sé tanti cambiamenti, per questo è complessa: cambiamento del proprio corpo, del rapporto con proprio partner, con le amiche, con il fatto che non vai a lavorare, con questo essere strano e imperscrutabile che è il tuo bambino, con il tempo. Se la presentiamo come “normale” facciamo sentire la madre sempre come incapace. Tra tutte le forme di solitudine che sperimenta la mamma, c’è anche quella rispetto a sé stessa, perché non si ritrova più, lei è come se fosse un’altra. Occorre portare a questa comprensione appunto con un accompagnamento di tipo professioniste. In tanti incontri per le mie proiezioni a volte vengono delle nonne, perché vogliono capire, rispetto alla propria figlia, alla propria nuora; poi in realtà pensano a sé stesse, a quando sono diventate mamme e in più casi mi hanno raccontato che loro non erano sole, perché c’era la famiglia, ma non era una cosa solo positiva. “Non ero sola, ero sotto l’occhio di mia suocera, che diceva: non sai fare questo, non sai fare quello”. Quindi, serve l’accompagnamento sì, ma di figure professioniste, che hanno una capacità di empatia, ma non perché sono buone, ma perché hanno una professionalità. In questa esperienza complessa c’è bisogno di qualcuno che abbia la capacità professionale dell’empatia e di capire quali sono i problemi.
Mariagrazia, lei è stato tanti anni professoressa ordinaria di Pedagogia Generale e Sociale, Filosofia dell’Educazione e Pedagogia dell’Infanzia e delle Famiglie all’Università di Bologna, è autrice di numerosi libri sul tema della pedagogia e dell’educazione e oggi fa la documentarista: come è avvenuto il passaggio dalla docenza al cinema?
Noi docenti quando andiamo in pensione riceviamo prima una lettera dal magnifico Rettore che dice “Chiarissima collega, dal 1° novembre lei è collocata a riposo”. Ho pensato: a riposo, no, eh! Non insegnerò all’Università, l’ho fatto per quarant’anni, adesso è venuto il momento di imparare. Negli ultimi anni di insegnamento facevo fare ai ragazzi e alle ragazze dei gruppi di lavoro e poi alla fine dovevano portare un contributo a tutta l’aula. Spesso portavano dei piccoli video, era per loro un tramite molto importante, li faceva entrare dentro a dei contenuti molto interessanti, con un linguaggio diverso. Ho voluto provare e da lì mi sono molto appassionata.
Come lavora?
Ho l’idea. In passato scrivevo un libro, adesso faccio un docufilm, non un semplice documentario con interviste. Allora scrivo il soggetto, come se fosse un film. Poi mi metto alla ricerca dei personaggi. È un momento molto delicato e complicato. Non ho i mezzi per fare un casting, quindi lavoro con il passaparola. Per esempio, su questo delle neo-mamme c’è stata una ricerca che ha coinvolto anche mie ex studentesse e ricercatrici. Così abbiamo trovato le protagoniste del docufilm, perché volevo figure che fossero in qualche modo rappresentative di questo nostro tempo. Poi faccio le riprese, un momento esaltante, con tutta la troupe, i vari tecnici e le persone protagoniste da dirigere. Parlo tanto con loro, nei giorni precedenti e mi faccio raccontare, poi chiedo di raccontare quello che, secondo me, è stato più interessate fra quello che mi hanno detto: ma alla fine dicono quello che vogliono, non sono attori. Poi nel montaggio affianco il montatore: è un momento decisivo. Infine, comincia la tournée: I nove mesi dopo l’ho portato in tutta Italia, in quasi quaranta presentazioni. Qui si incontrano le persone e si fanno riflessioni insieme. È bellissimo, un dono.
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