Un tempo di riflessività e confronto tra i tanti operatori, coach, referenti territoriali coinvolti nell’implementazione del LEPS P.I.P.P.I. Operatori e professionisti che spesso devono confrontarsi con vissuti e storie che sembrano difficili, insormontabili. Un’esperienza che è risuonata nel racconto di accompagnamento di una famiglia e ha evidenziato la figura di Bola, la mediatrice culturale che è diventata un ponte, una cucitura con ago e filo tra esperienze culturali tanto diverse. “Quando abbiamo iniziato eravamo veramente sconfortati. Pensavamo che sarebbe stato un intervento fallimentare, ma nella complessità della situazione si è riusciti a portare avanti l’intervento nell’arco di 12-14 mesi, con un grande successo, sia da parte della famiglia, ma anche della rete che l’ha supportata” raccontano i membri dell’èquipe multidisciplinare.
Un viaggio “isomorfico” che ha portato a scoprire, pur nella fatica, tanta bellezza. “Abbiamo avviato l’accompagnamento di una famiglia nigeriana con due bambini abbastanza piccoli di 5 e 4 anni, nati in Europa (in Germania e in Italia) con una situazione iniziale davvero sconfortante. Erano stati già rimbalzati da varie istituzioni. I due bambini erano ritenuti ingestibili, con presunta diagnosi di autismo per entrambi”.
E poi c’era la difficoltà di comunicazione: “Ci rendevamo conto che questa mamma non ci riusciva a capire e non riuscivamo tanto bene a capire lei.Loro erano isolati e noi eravamo isolati.Poi ci siamo resi conto che il problema non era solo intendersi linguisticamente. Abbiamo avuto bisogno del mediatore, di qualcuno che ci aiutasse a costruire un ponte con la mamma. Attraverso la mediatrice c’è stata la svolta, come ago e cotone. L’intervento della mediatrice non solo ha costruito un ponte ma ha proprio iniziato ad imbastire anche la relazione che avevamo con questa mamma e l’intero nucleo familiare”. Storie di tessiture pazienti, storie che segnano il passaggio dall’impossibile al possibile. Storie che la comunità, la rete intorno al LEPS P.I.P.P.I. promuove e sostiene.
Nessun bambino è cattivo
Un viaggio “isomorfico” che ha portato a scoprire, pur nella fatica, tanta bellezza. Abbiamo avviato l’accompagnamento di una famiglia nigeriana con due bambini abbastanza piccoli di 5 e 4 anni, nati in Europa (in Germania e in Italia) con una situazione iniziale davvero sconfortante. Arrivavano al servizio per un accompagnamento domiciliare ed erano stati già rimbalzati da varie istituzioni. I due bambini erano ritenuti ingestibili, con presunta diagnosi di autismo, e quindi con la difficoltà oggettiva dei maestri che, senza un supporto ulteriore a scuola, non avrebbero saputo come gestire la situazione insieme agli altri bambini della classe.
La mamma di questi due bambini non parlava quasi per niente italiano e raccontava un vissuto di grande esclusione da tutte le istituzioni; lei non riusciva a capire perché i suoi bambini non potessero andare a scuola. Ci diceva: “Perché mio bambino non è cattivo, perché non scuola?”.
I bambini non parlavano, si arrampicavano su tutte le strutture praticabili; quindi effettivamente c’era un pericolo. E poi c’era la difficoltà di comunicazione perché ci rendevamo molto conto che questa mamma non ci riusciva a capire e non riuscivamo tanto bene a capire lei.
Sono state tantissime le riunioni d’equipe con i servizi sociali, con la direzione dei servizi sociali per cercare una strategia comune, anche una corresponsabilità. Inizialmente abbiamo pensato di affrontare questa difficoltà inserendo nella mini équipe lo psicologo che conosceva l’inglese e l’educatrice che aveva una certa dimestichezza; poi ci siamo resi conto che il problema non era solo intendersi linguisticamente.
Occorreva costruire l’atteggiamento di fiducia: anche con il sostegno degli altri attori che erano attorno a noi abbiamo sentito che potevamo provare a raggiungere dei micro obiettivi, piccoli piccoli, ma che forse la primissima cosa era metterci in una posizione di apertura e di osservazione rispetto alle richieste che questa mamma portava e che però non spiegava né faceva capire.
La situazione chiedeva un’osservazione partecipata, un ascolto attivo per sintonizzarsi emotivamente con i bambini e capire su che cosa potevamo lavorare.
Abbiamo avuto bisogno del mediatore, di qualcuno che ci aiutasse a costruire un ponte con la madre per farci capire bene il suo punto di vista e piano piano costruire un lavoro congiunto e che le rappresentasse anche il nostro punto di vista. Noi comunicavamo al nostro modo il nostro mondo, quindi noi non ci toccavamo mai, come la famiglia continuava a non toccarsi con le istituzioni, per questo si ritrovavano isolati, per questo anche noi ci sentivamo isolati, perché il punto di contatto noi non riuscivamo a raggiungerlo.
La mediatrice Bola è stata la svolta: come si dice ago e cotone. Ha costruito un ponte, ha proprio iniziato ad imbastire anche la relazione che avevamo con questa mamma. Ci ha dato le prospettive culturali, i bambini si arrampicano perché probabilmente le scuole sono diverse in Africa; la mamma non è mai andata a scuola e quindi il suo crescere è stato arrampicarsi, prendere le cose, prenderle prima degli altri, corre avanti e indietro. Ci chiedeva di tenere presente questi vissuti, ipotizzando anche che la mamma fosse analfabeta.
È stato essenziale, abbiamo fatto prima con Bola un lavoro di ‘traduzione’ a lei di tutto l’orizzonte di senso pedagogico all’interno del quale l’educatore e gli operatori si relazionavano ai bambini, in modo che poi potesse capire in che direzione andavamo e il senso che avevano le azioni, i comportamenti che sceglievamo negli interventi.
Beneficiando di un clima facilitante, abbiamo cominciato a convogliare l’attenzione dei bambini: loro si sono messi comodi e abbiamo potuto partecipare anche con la madre delle attività per esempio il giochino per formare le parole, chi lo dice in inglese e chi lo dice in italiano. Si è creato un clima collaborativo per cui la madre ha potuto esperire qual era il modello relazionale a cui noi facevamo riferimento e che le veniva richiesto.
Abbiamo fatto un’équipe con le maestre che è stata bellissima. Ci hanno restituito il grande lavoro che è stato fatto. Noi abbiamo negoziato con la scuola. Quindi adesso i bimbi vanno a scuola e riescono a stare nel contesto scolastico con tutte le acquisizioni che hanno avuto grazie all’intervento fatto con la micro équipe.
Sicuramente quello che noi possiamo dire, anche dall’esperienza che facciamo quando ci fermiamo, approfondiamo, anche con la piattaforma RPMonline, è che accompagnare l’intervento può essere molto faticoso, però poi al termine te ne esci stanco ma anche un po’ soddisfatto: perché riesci a ricostruire, a riprendere e anche a rivedere delle cose che hai nella testa che però, forse, anche riscriverle non è così semplice. La responsabilità decisionale è stata condivisa, in questo caso più degli altri, in maniera totale e forte.
Testimonianza raccolta dagli operatori del Polo Territoriale per le Famiglie della IV municipalità del Comune di Napoli
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