Giugno 24, 2025
Questione di orecchi e di occhi. Abbiamo voluto proprio spalancarli, nella Conferenza internazionale SENSE E SENSIBILITY nel lavoro sociale ed educativo con bambini e famiglie, proposta dal Gruppo scientifico di LabRIEF dell’Università di Padova che ha visto la speciale partecipazione di Romolo De Camillis Direttore Generale per lo sviluppo sociale e gli aiuti alle povertà del Ministero delle Politiche Sociali e del Lavoro.
Cosa vuol dire Sense e Sensibility? Cosa dicono alla grande comunità che si spende per implementare il LEPS con P.I.P.P.I.? Il racconto della giornata e la testimonianza di Edgar Marthinsen Professore Emerito, Dipartimento di Lavoro Sociale, presso la Norwegian University of Science and Technology di Trondheim, in Norvegia, grande esperto dei servizi sociali in Europa.
Partire dalla realtà
Ce lo siamo detti all’inizio: nel 2024, secondo i dati Eurostat, 93,3 milioni di persone nell’Unione Europea (il 21% della popolazione totale, più di 1 su 5) vivono in famiglie con almeno uno dei tre principali fattori di rischio secondo l’indicatore AROPE (At Risk Of Poverty or social Exclusion). Tra questi il 16% (72,2 milioni) sono a rischio di povertà monetaria; Il 6,4% (27,5 milioni) soffrono una grave deprivazione materiale e sociale; l’8,1% (26,2 milioni) vivono in una famiglia con un’intensità di lavoro molto bassa.
Gli stessi dati ci dicono che questo rischio di povertà o esclusione sociale è maggiore per i bambini rispetto agli adulti in Europa: nel 2024, si colloca al 24,2% per i bambini nell’UE (circa 19,5 milioni, ovvero 1 su 4), rispetto al 20,3% degli adulti.
La povertà infantile è una condizione multidimensionale che va ben oltre la sola mancanza di reddito: include anche deprivazioni educative, culturali e di opportunità. I bambini più poveri non solo ricevono meno cure, ma vivono anche con maggiori livelli di stress, isolamento e disagio psicologico, che compromettono i loro percorsi scolastici e di vita. La povertà espone i bambini a un rischio maggiore di negligenza, innescando quel circolo vizioso che alimenta l’esclusione sociale e ne favorisce la trasmissione intergenerazionale. Per rompere questo ciclo dello svantaggio è fondamentale investire nel sostegno alla genitorialità nei contesti vulnerabili, rafforzando parallelamente le misure di contrasto alla povertà economica, educativa e relazionale.
Questo scenario sfida i servizi sociali che sono in prima linea nel supporto alle famiglie, nella prevenzione del disagio e nella promozione dell’inclusione.
Perché servono “Sense e Sensibility“
Questa associazione, questo duetto di ragione e sentimento, è l’esito di un lungo percorso di confronto fra esperienze di ricerca internazionale che si è fatto strada nel dialogo e nel confronto con le pratiche dei servizi sociali, mostrando una forza di trasformazione e di cambiamento sia di chi fa ricerca, sia di chi incontra i servizi sociali. È un modo diverso di guardare le persone e analizzare le loro vulnerabilità. Assume una prospettiva multidisciplinare: sono tante le cause che influiscono su una situazione, l’operatore sociale non può risolvere tutti i problemi, ma può contribuire a cambiare il modo in cui sono affrontati e come si incontrano le persone. Chiede di “dare spazio” – ci ha raccontato Edgar Marthinsen -, di avere una mente aperta per poter riconoscere le proprie norme e i propri pregiudizi nell’incontro con l’altro. Predispone il terreno per un dialogo in cui i valori e i principi, il gusto e il desiderio dell’altro possano esprimersi senza condanna o svalutazione. “Sense e Sensibility” vogliono tenere insieme conoscenze professionali e umanità, superando un approccio positivista e il rischio del managerialismo. Non solo: come ci ha spiegato Brid Featherstone – vogliono andar oltre la modalità del servizio sociale che mette al centro il rischio di trascuratezza. Suggeriscono un approccio dialogico per mettere i problemi nella giusta direzione: propongono di mettersi al fianco delle persone, di promuovere partecipazione, di superare l’individualismo (che dice: è solo un tuo problema), di stimolare umanità ed empatia.
Un approccio innovativo che è di casa in P.I.P.P.I.
È una sfida, ha riconosciuto Sara Serbati ricercatrice del Gruppo scientifico LabRIEF. “E come tutte le sfide ci vuole anche un pizzico di coraggio nel provare. Nei tanti incontri con operatrici e operatori di P.I.P.P.I. che ho svolto in questi anni ho imparato che la fiducia si crea proprio quando ci si pone in ascolto della parola dell’altro, magari proprio quando a volte questa parola ancora non c’è, perché ci sono troppe emozioni, troppi vissuti che impediscono lo scorrere di un pensiero. Allora l’impegno all’ascolto diventa ancora più importante, perché occorre porsi in ascolto degli agiti delle persone e lentamente costruire insieme nuovi significati attraverso le parole”.
È l’impegno a superare un ragionare semplificato: “Troppo spesso, di fronte a problemi complessi come è il supporto alle famiglie in difficoltà, la tentazione è dire: ‘Ecco, fai così’. Ma questo approccio ignora la complessità della realtà. E si focalizza sulla mancanza del singolo, del genitore, come dire ‘stai sbagliando, vedi di riparare’. Invece quello di cui abbiamo bisogno è un ragionare fondato su saperi professionali esperti e sul sapere dell’esperienza delle famiglie, sulle loro storie, percorsi e comprensioni. Perché sono loro le più profonde esperte e conoscitrici delle situazioni da esse stesse vissute”.
Quello che serve allora è proprio un pensiero riflessivo, che è ben presente in P.I.P.P.I.: “In P.I.P.P.I. c’è un processo di pensiero riflessivo che abbiamo chiamato di valutazione partecipativa e trasformativa, dove il soggetto non sono né i genitori, né i singoli professionisti, né il bambino, ma l’équipe multidisciplinare, cioè genitori e bambino/a insieme agli operatori, agli insegnati e alle altre persone eventualmente coinvolte. Il sense, il ragionamento, è costruire nuove catene di significato in cui la soluzione è frutto della condivisione del sapere di ciascuno in équipe multidisciplinare. E questo spinge a superare le soluzioni semplicistiche. Ma già nel realizzarlo è evidente come entri in gioco la sensibility, quella sensibilità, quel sentimento, per riprendere la traduzione in italiano dal romanzo di Jane Austen, un agire sensibile che si preoccupa di fare spazio al sapere dell’altro, ma anche permettere all’altro al genitore, ma anche al bambino, di comprendere il proprio punto di vista, le proprie sensazioni, i propri bisogni. Allora il sense ha bisogno anche di quella sensibility che costruisce un percorso affinché l’altro, il genitore, il bambino, abbia la possibilità di portare la propria voce, per poter arrivare a partecipare alla costruzione del sense, del ragionamento riguardo a ciò di cui essi stessi hanno bisogno”.
Le applicazioni pratiche
Nei Lightning Talks in cinque tempi sono stati approfonditi alcuni temi affrontati nel libro, valorizzando e mettendo in dialogo le competenze e le esperienze degli ospiti presenti. Laura Yliruka (Finlandia) e Paola Milani (Italia) si sono confrontate sul tema della governance, necessaria per assicurare lavoro sociale dal punto di vista macro, sia nel supporto di sistema politico, nazionale e locale, sia nella collaborazione con l’Università. Sara Serbati (Italia), Federico Zullo (Italia) e Caroline Mc Gregor (Irlanda) hanno dialogato da più punti di vista sul tema della co-ricerca, sulla postura di ricerca condivisa che rende protagonisti i bambini, le famiglie e gli esperti per esperienza, come nel caso dei care leavers. Francesca Maci (Italia) ed Edgar Marthinsen (Norvegia) hanno portato Sense e Sensibility sul tema della partecipazione anche nei processi di allontanamento dei bambini e degli adolescenti. Oltre i confini familiari, Nuria Fuentes-Peláez (Spagna) e Andrea Petrella (Italia) hanno proposto strumenti per promuovere relazioni significative nei contesti comunitari, proprio nell’intento di valorizzare le risorse locali per un miglior benessere complessivo. Per tornare al tema della formazione continua: con Laura Yliruka (Finlandia), Anne Moe(Norvegia) e Marco Ius (Italia) sono stati introdotti strumenti e metodologie finalizzate a un apprendimento continuo.
Nella vivace Tavola rotonda del pomeriggio ci si è chiesti come il duetto di Sense e Sensibility, ragionamento e sensibilità, possano prendere radici nei diversi ambiti di competenza di stakeholder qualificati e esperti: Romolo De Camillis Direttore Generale per lo Sviluppo Sociale e gli aiuti alla Povertà, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha ripercorso il cammino del programma P.I.P.P.I. fino a diventare LEPS, ribadendo l’investimento importante del Ministero con l’impegno relativo al rafforzamento delle équipe multidisciplinari e ai Master di I e II livello; Silvia Fargion Presidente della Società Italiana di Servizio Sociale e Professoressa Ordinaria di Lavoro Sociale, Università di Trento (Italia); Francesca Schir Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e ricercatrice di Pedagogia, Università di Bolzano (Italia); Mariateresa Paladino Servizio Politiche Sociali e Socio-educative, Regione Emilia-Romagna (Italia); Angela VignozziDipartimento Welfare e Innovazione Sociale, Regione Toscana (Italia); Luca Agostinetto SIPED (Società Italiana di Pedagogia) e Professore Associato di Pedagogia, Università di Padova (Italia); Antonella LabiancaCasa Editrice Carocci (Italia); Isobel Baiton Policy Press Publishing House (UK).
Un percorso – è stato riconosciuto – “ancora in divenire, ma che esiste e va rafforzato”. Come insegna l’esperienza del LEPS P.I.P.P.I. e dell’importante investimento in formazione che si svilupperà con i nuovi Master di I e II livello il cammino per un’innovazione duratura di Sense e Sensibility nel welfare italiano. In un cammino che integra tutti i livelli dell’implementazione, nazionale, regionale e locale, e che ci impegniamo ad accompagnare con la passione dei piccoli passi che poco a poco costruiscono un percorso duraturo nel tempo.
Lasciandoci anche stupire: “Ho visto che è una mamma competente!!” “Il papà ha capito! Ora si mette in gioco!”, sono frasi ricorrenti quando si fa spazio ai saperi di tutti. Certo, il percorso che tiene insieme il Sense e la Sensibility è spesso faticoso, proprio perché le storie delle persone sono difficili e tortuose. Dare spazio e dare insieme un nome ai bisogni che stanno dietro alle situazioni richiede grande competenza professionale e grande sensibilità, attenzione al sentire dell’altro.
Noi ci proviamo!
DARE SPAZIO
In dialogo con Edgar Marthinsen Professore emerito, Dipartimento di Lavoro Sociale, Norwegian University of Science and Technology di Trondheim, Norvegia che ha attraversato tante fasi del lavoro sociale nel tuo paese ed è un osservatore attento anche di altri paesi e realtà, approfondiamo la sua idea di sense e sensibility come proposta di innovazione del servizio sociale nel suo approccio e nelle sue pratiche.
Ascoltare le persone (mutuato da “Una mente per imparare” di Hannah Arendt), applicare la conoscenza con sensibilità, accettare ciò che non sappiamo degli altri, accogliere le diverse prospettive professionali ed esistenziali: cosa intendi con questa formidabile suggestione di “dare spazio”, caratteristico di una “mente che impara”?
“Dare spazio” significa avere una mente aperta per poter affrontare le proprie norme e i propri pregiudizi negli incontri con gli altri, i diversi, per preparare il terreno per una conversazione in cui i valori e i principi, il gusto e il desiderio dell’altro possano esprimersi senza condanna o svalutazione. È qui che ho utilizzato i concetti di Charles Taylor sui valori forti e deboli. Questi possono differire tra le persone e le culture, rappresentati come valori e principi, che di solito non si negoziano, e gusti o preferenze in cui persone e culture possono presentare posizioni diverse. Morale, credenze e gusti sono spesso intrecciati tra le persone, ed è qui che utilizzo la nozione di distinzioni che costituiscono diverse forme di capitale, come suggerisce Pierre Bourdieu: forme di capitale simbolico come quello sociale, culturale ed economico. Ho esteso questa economia del capitale simbolico al lavoro sociale come oneri simbolici – stili di vita, gusti e norme che “noi” – la società in senso lato – o le nostre istituzioni pubbliche, consideriamo indesiderati nelle nostre vite – situazioni che possono portarci a considerarli a-sociali o non sociali, richiedendo quindi un lavoro sociale.
Ne parli nel libro, ma puoi raccontarci brevemente come leggi l’evoluzione del pensiero del servizio sociale negli ultimi trent’anni? Quali fasi abbiamo attraversato? Quali parole chiave si sono succedute in questi anni?
Dividerei questa domanda in due. Una riguarda la società in quanto tale, l’altra il lavoro sociale come professione e scienza sociale. Ritengo che il principale cambiamento nella società possa essere definito l’introduzione del “workfare” (il temine fa riferimento a programmi o politiche che richiedono una combinazione tra benefici economici e inserimento lavorativo ndr). Lo considero un ritorno neoliberista a un modo arcaico di considerare l’uomo come intrinsecamente pigro e poco incline al lavoro. Questo sguardo sembra essere imposto in particolar modo ai poveri, che devono essere controllati e condannati per essersi messi in una situazione così difficile. Agli assistenti sociali è affidato il compito di “disciplinare” i poveri. Il lavoro sociale con cui sono cresciuto, a partire dagli anni ’70, aveva un modello molto più sociale, considerava la società come un’organizzazione che mantiene alcuni poveri e altri ricchi, e la medicina consisteva nel combattere le disuguaglianze e migliorare le opportunità di vita di chi era meno abbiente. L’idea moderna di sviluppo scientifico che ancora domina la politica sembra richiedere metodi più efficaci per “disciplinare i poveri”, piuttosto che una scienza sociale critica che metta in relazione le convinzioni delle persone con le condizioni sociali della vita. Il lavoro sociale come professione si basava fortemente su altre scienze (psicologia, sociologia e medicina), ma mancava della esperienza di pratica e ricerca necessaria per contestualizzare il lavoro sociale e socio-educativo. Lo sviluppo di un’infrastruttura che consenta alla ricerca di allinearsi e co-creare conoscenza con la pratica del lavoro sociale e socio-educativo implica l’integrazione di tutte le discipline scientifiche più rilevanti con gli esiti e la decostruzione delle pratiche. Questo movimento è stato influenzato e talvolta ostacolato dal pensiero neopositivista, che cercava di superare l’insicurezza e l’ignoto nel sociale avvalendosi di rigorose prove scientifiche di portata universale.
Si potrebbe quindi affermare che la ricerca nel lavoro sociale e socio-educativo ha incontrato affermazioni non pertinenti nelle scienze sociali: da qui la necessità di introdurre la ricerca della sensibilità per affrontare l’ampia visione dei diversi modi in cui la vita può essere vissuta nel mondo libero di oggi. Ciò non significa che non dobbiamo affrontare sfide universali. Fame, perdita, amore, desiderio, paura, dolore e lutto sono emozioni umane e desideri corporei che possono essere espressi in diverse culture, ma sono pur sempre un’espressione umana generale.
Quali esigenze e sfide sono emerse gradualmente? Quali segnali avete raccolto per capire che era necessario un cambiamento?
L’informatizzazione era entrata nell’ambiente in cui si svolgeva l’assistenza sociale. L’aumento dei beneficiari richiedeva sistemi migliori per monitorare e gestire il lavoro correlato ai beneficiari, in particolare economia, contabilità, gestione dei registri e rendicontazione delle attività, ecc. Il problema era che questi sistemi non erano sviluppati per gestire l’assistenza sociale, ma tutto il resto, relativo alla burocrazia. Rispetto agli ospedali e alla medicina, i sistemi consentivano la diagnosi e la registrazione delle attività, ma nell’ambito dell’accompagnamento sociale e socio-educativo mancava una diagnosi sociale che ricreasse una storia affidabile su ciò che accadeva nei servizi. Lasciando la comprensione delle dinamiche sociali delle storie dei beneficiari alla sociologia, avevamo solo una descrizione di come famiglie e bambini incontrati dai servizi sociali si differenziassero dalla moltitudine della popolazione, e poco sul contributo e l’output dell’accompagnamento.
Ecco che per sostenere lo sviluppo del servizio sociale, avevamo bisogno di una informatizzazione diversa, una sorta di analisi sociale dei bisogni e delle strategie che sviluppavamo per affrontare le sfide, e della volontà di utilizzare metodi scientifici per rivelare i risultati del lavoro sociale e socio-educativo e il modo in cui potevamo rafforzare le capacità delle persone con cui lavoravamo.
Come è stata definita una nuova direzione? Quali cambiamenti sono stati implementati?
Almeno nei Paesi nordici, il movimento di practice research è stato in una certa misura avviato dall’ingresso in accademia del lavoro sociale come disciplina, combinato con l’impegno per la ricerca nel campo della pratica – una cooperazione tra il mondo professionale e quello della ricerca – spesso concettualizzata come practice research, ricerca e pratica.
L’accademizzazione del servizio sociale attraverso l’istituzione di master e dottorati di ricerca nella maggior parte delle Università dei paesi nordici ha contribuito a questo sviluppo.
Ora, in che fase ci troviamo? Quali sono i rischi e le opportunità di questo periodo nella ricerca e nella pratica del lavoro sociale?
Credo sia diventato evidente che i valori fondamentali del servizio sociale influenzino almeno una parte del campo di ricerca attraverso una forte attenzione alla lotta contro l’ingiustizia, alla disuguaglianza e alla povertà. Rendere visibile questo aspetto del servizio sociale e anticipare la comprensione di questi poteri in gioco può avere un impatto sulla disponibilità a finanziare la ricerca in servizio sociale da parte dei governi conservatori di destra. La ricerca incentrata sul rafforzamento delle capacità di coping individuali e le misure utilizzate con un focus individualizzato che incolpa la vittima sembrano avere maggiori probabilità di successo. I modelli sociali che puntano il dito contro la società e la sua organizzazione non hanno le stesse opportunità di finanziamento.
Tuttavia, le opportunità, e parlo in particolare per i paesi nordici, risiedono nella forza e nella resilienza del campo accademico del servizio sociale e nella sua possibile collaborazione con il settore e i sindacati del servizio sociale, nonché con i singoli assistenti sociali e i dirigenti desiderosi di migliorare le pratiche. Il fatto che ora disponiamo di un numero crescente di assistenti sociali con competenze di ricerca di base e di esperti nella ricerca sulla pratica del servizio sociale amplierà la base scientifica della pratica del servizio sociale.
Sebbene potremmo assistere a un aumento della conflittualità tra diverse visioni del sapere che competono per l’accesso ai finanziamenti per la ricerca, credo che un modello in cui il movimento basato sulle prove sia più o meno integrato come parte della ricerca pratica possa ridurre le tensioni nel settore. Almeno, sia la Svezia che la Finlandia si sono mosse in questa direzione. Potremmo anche assistere allo sviluppo di un settore più interprofessionale, in cui la ricerca in servizio sociale si integra più strettamente con altri campi e discipline. A mio avviso, il servizio sociale e la sociologia danesi hanno avuto uno sviluppo prospero, sostenendosi a vicenda, almeno all’Università di Aalborg, ma anche a Roskilde.
Cosa pensi del Programma P.I.P.P.I.?
Ho scoperto il Programma P.I.P.P.I. grazie agli interventi del Gruppo scientifico ai convegni dell’ESWRA (European Social Work Research Association) e in seguito, ho avuto la possibilità di seguirne i lavori nel 2022, mentre lavoravo a Padova per alcuni mesi. La mia impressione del programma è che abbia sviluppato alcune delle migliori pratiche del lavoro sociale con un’attenzione all’apprendimento, attraverso la combinazione di un programma di formazione e insegnamento accademico per gli operatori, un atteggiamento relazionaleverso genitori e bambini e una forte attenzione alla misurazione dei risultati, che non è solo gestionale, ma focalizzata sulla ricerca.
L’introduzione e la gestione continua della conoscenza, la creazione di significato e i valori portati dal programma sembrano molto consapevoli del fatto che le famiglie e i bambini hanno capacità e possibilità che possono essere migliorate, così come una comprensione dei fatti sociali della vita vissuta. Ripercorrendo la nostra recente pubblicazione Sense and Sensibility in Social Work with Families and Children questa modalità potrebbe riflettere una combinazione del modello sociale e del protective support e supportive protection discussi nel libro (a cui rinvio), ma anche alcune somiglianze con la nuova organizzazione finlandese di sostegno e protezione dei minori. Vedo anche che sia Serbati che Ius usano nei loro lavori il concetto di buon senso nel Programma. Credo che rifletta in una certa misura anche i concetti del circolo virtuoso.
Il Programma P.I.P.P.I. potrebbe certo trarre vantaggio da una teorizzazione simile a quella proposta da Yliruka et al. nel loro capitolo, mettendo in discussione la scienza dell’implementazione con la scienza del miglioramento. Anche Ius sottolinea la necessità di lavorare in modi diversi, promuovendo e mantenendo l’innovazione (pag. 161).
Ritengo inoltre che, all’inizio del Programma, il servizio sociale italiano non abbia dovuto affrontare le stesse difficoltà legate al managerialismo che si presentano nel Regno Unito e nei paesi nordici. Questo potrebbe essere dovuto a una diversa organizzazione (e forse a un diverso approccio) del servizio sociale nei paesi cattolici.
Spero davvero che il Programma P.I.P.P.I. continui a operare con una prospettiva di contrasto alla povertà. Per assumere tutti, ricercatori, operatori e decisori politici, la responsabilità delle sfide strutturali che influenzano le condizioni di vita di bambini e adulti.
Per approfondire: Sense and Sensibility in Social Work with Families and Children. European Perspectives on Developments in Child Protection and Welfare, Edited by Sara Serbati, Edgar Marthinsen and Brid Featherstone, Policy Press, First published in Great Britain in 2025.
Di seguito un’altra storia ripresa dall’intervento di Sara Serbati alla Conferenza
DENTRO GLI EVENTI: COMPRENDERE I SIGNIFICATI DEI GESTI
Ho in mente una situazione in cui una mamma, che vede la figlia una volta a settimana, tutte le volte porta grandi quantità di cibo come dolci e fritti, cui tra l’altro la bambina non è interessata. In questa situazione, la risposta semplicistica che si rischia di dare è “Mamma, non va bene, devi portare meno cose e cibi sani”. La mamma poi non lo fa e quindi si rischia di arrivare a dire che la mamma “è inadeguata”.
Questo processo di soluzione però guarda solo al fatto in sé, senza andare a cercare quello che sta intorno, senza approfondire gli elementi del contesto. Soprattutto, trascura di ascoltare il bisogno di quella mamma: perché tutte le volte continua a portare quella quantità di cibo “non sano”. Quale è il bisogno che la muove? Ecco in azione un semplice processo di pensiero che però è riflessivo in quanto non si accontenta del noto, ma cerca nuovi dati, nuovi fatti con cui costruire nuove catene di significato. E si scopre che quel gesto è legato al desiderio smisurato della mamma di comunicare alla figlia quanto le vuole bene. Ecco allora un buon esempio di “sapere dell’esperienza” di una mamma che ha bisogno di essere accompagnato dal sapere dei professionisti per trovare insieme le soluzioni più adatte per tutti. I regali della mamma necessitano di rispondere ai bisogni di crescita della figlia, e allo stesso tempo il bisogno di comunicare il proprio affetto della mamma deve trovare nuove modalità, modi che riescano a riempirle il cuore. È chiaro che il fatto di portare alla figlia una mela non le darebbe tanta soddisfazione, no?! Questo è il “sense” del pensiero riflessivo, che dà valore ai processi di ricerca, comprensione e approfondimento dei problemi da parte dell’equipe multidisciplinare. E già nel realizzarlo è evidente come entri in gioco la “sensibility”, quella sensibilità, quel sentimento, per riprendere la traduzione in italiano dal romanzo di Jane Austen, un agire sensibile che si preoccupa di fare spazio al sapere dell’altro, ma anche permettere all’altro al genitore, ma anche al bambino, di comprendere il proprio punto di vista, le proprie sensazioni, i propri bisogni.
Perché quella mamma non necessariamente è consapevole del fatto che le sue azioni sono frutto del desiderio di rendere tangibile il proprio “ti voglio bene!” alla figlia. Penso che rispetto alla sensibility valga la pena ricordare la bella e forte tradizione di pedagogia sociale in Italia. Una tradizione che forse ci ha anche un po’ tenuti al riparo dai rischi di managerialismo che interessano invece il nord Europa. Faccio riferimento a pedagogisti come don Milani, Carla Melazzini, Danilo Dolci, Maria Montessori, Piero Bertolini solo per citarne alcuni, e ovviamente oltreoceano Paulo Freire. In maniera diversa ciascuno di loro si è posto il problema di come dare la parola, a persone che la parola non ce l’hanno, sia perché non ne hanno lo spazio, ma anche perché, come dice Melazzini “sono intasate da emozioni e conflitti che non si esprimono con la parola, ma col silenzio, con il corpo, con il gesto, con l’urlo” (citando Melazzini).
È importante che con quella mamma si possa dare un nome al suo bisogno di dire alla figlia “Ti voglio bene”. Ed è un percorso da svolgere insieme, attraverso questi processi di pensiero riflessivo. (Dall’intervento di Sara Serbati)
Input your search keywords and press Enter.