Dal campo

AMBITO DI PUTIGNANO: EMPATIA CHIAMA FIDUCIA

L’esperienza di accompagnamento di una famiglia e la sensibilità dell’educatore che coglie lo snodo critico: parlare curdo in famiglia era una forma di resistenza identitaria, un modo per salvare la lingua vietata in Siria dove vivevano. Soprattutto è la lingua degli affetti. Il racconto di Alessia Raimondi, educatrice, per capire che, talvolta, quelle che frettolosamente definiamo “difese” delle famiglie, sono in realtà atti di resistenza.

Ci racconti la storia di questa famiglia?

È una famiglia di origini curdo-siriane, una delle tante vittime della cosiddetta persecuzione dei curdi che storicamente, e ancora oggi, ha visto diverse forme di repressione e violazione dei diritti umani in paesi come Iran, Iraq, Turchia e Siria. Prima di arrivare in Italia ha attraversato in fuga Turchia, Libano e Germania. In Italia, dal 2017, sono stati accolti come rifugiati dal Sistema di Accoglienza e Integrazione italiano (SAI). La lingua curda, dopo la frammentazione e la scomparsa dalle mappe del Kurdistan, era vietata, la popolazione non ha più potuto parlarla in pubblico. E neppure hanno potuto studiarla a scuola in forma scritta, perché a scuola si studiava e si scriveva direttamente in arabo. In alcuni contesti ci si dovevano fingere arabi per non essere perseguitati. 

Come è composta la famiglia?

Da madre, padre e tre figli. L’ultimo di questi, di appena tre anni, ha subito in un anno due interventi chirurgici. La madre parla arabo e curdo. Il padre arabo, curdo e un discreto italiano. I due bambini minori l’italiano e il curdo, non l’arabo perché due figli su tre sono nati in Italia mentre il primo figlio è nato quando ormai erano in Libano. L’ultimo non parlava proprio. 

Come avete conosciuto questo nucleo familiare?

La famiglia è stata inserita in P.I.P.P.I. su segnalazione della scuola, in seguito all’uscita dal progetto SAI. Quando la famiglia entra in P.I.P.P.I., il papà aveva trovato un lavoro e una dimora stabile per la famiglia. 

Che bisogni sono emersi nell’assessment?

Avevano bisogno di integrarsi nel tessuto socio-culturale locale. Ci venivano riferiti episodi di bullismo scolastico. Il padre aveva bisogno di prendere la patente di guida e di avere un’auto. La madre aveva bisogno di trovare un lavoro sia per familiarizzare con la lingua italiana, sia per un ritorno economico. C’era la necessità di costruire una rete sociale.  Questa mamma in Italia non aveva nessuno supporto, era molto sensibile e mostrava con un vissuto doloroso: i suoi due fratelli erano stati uccisi a sangue freddo solo perché curdi. 

Cosa avete messo in atto come équipe multidisciplinare? 

Abbiamo attivato il dispositivo di educativa domiciliare insieme all’attività di raccordo tra scuola e servizi. La collaborazione con la scuola è stata fondamentale e in particolare con le maestre dei due figli maggiori con le quali l’educatrice si interfacciava in modo diretto e costante. I bambini frequentano il doposcuola e il campo estivo. La famiglia è molto collaborativa, partecipa attivamente ai gruppi genitori, condivide gli obiettivi definiti e desidera integrarsi nella comunità locale. 

Che problema si manifesta a un certo punto? 

A un certo punto arriva la richiesta da parte della scuola di usare l’italiano in casa, perché quando vedevano i bambini che tornavano dalle vacanze, riscontravano un arretramento nella lingua italiana. Le maestre mi sollecitavano: “Guarda che i bambini ci tornano dalle vacanze estive o dalle vacanze natalizie o da quelle pasquali che incespicano un po’ a parlare in italiano, sono un po’ più incerti, sembra a volte che non ricordino delle parole. Abbiamo bisogno di lavorare su questo aspetto in maniera che anche a casa si lavori su questo”. 

Come vi siete attivati?

Quando ho portato a casa questa esigenza delle maestre, mi hanno spiegato ovviamente quanto è importante per loro conservare almeno una tradizione orale della lingua curda, visto che non gli è possibile conservare la scritta, perché lo scritto non lo hanno mai imparato. Quei pochi momenti di convivialità che hanno in casa, hanno bisogno che siano in curdo. Dal momento che comunque i bambini a scuola parlano italiano, al dopo scuola parlano italiano, quando giocano tra loro parlano in italiano, adesso con l’inserimento al nido anche il terzo – che ha finalmente iniziato a parlare – parla in italiano. Mi hanno fatto comprendere quanto fosse importante per loro, almeno nei weekend, nei momenti in cui sono tutti insieme, mantenere quel minimo di tradizioni che sono legate ai piatti curdi, ad alcune abitudini che sono un po’ tipiche di tutto l’ambito mediorientale. Per esempio, il salone e la cucina sono organizzati con grandi tappeti e si mangia sostanzialmente per terra. Insomma, la famiglia, grazie alla relazione con l’educatrice, ha potuto esprimere le proprie motivazioni e i motivi della sua contrarietà alle proposte delle insegnanti di privilegiare l’uso dell’italiano anche in famiglia. 

Come avete facilitato la relazione con la scuola?

A quel punto abbiamo dovuto far comprendere alle maestre che c’era una faccenda che era tutta culturale e che era legata al conservare le tradizioni di queste persone che erano state violentate nella loro storia, nella loro cultura e che quindi avevano bisogno di mantenere un legame, anche per poter parlare con i nonni, fare una telefonata con i nonni. Va considerato anche che altrimenti questi nonni avrebbero rimproverato ai genitori il fatto che non stavano trasmettendo niente della loro cultura, della loro tradizione. Con espressioni come “Già ci hanno sradicato, già ci hanno perseguitato, già ci hanno tolto tutto quello che è legato all’identità curda. Se adesso togliamo anche la lingua, insomma, è finita”.

C’era la figura del mediatore linguistico-culturale all’interno dell’équipe multidisciplinare? Poteva essere utile?

Dal punto di vista linguistico sarebbe stata utile la facilitazione di un mediatore linguistico-culturale: avrebbe potuto facilitare la comunicazione con la madre che inizialmente non era in grado di comprendere l’italiano ed era costretta a farsi supportare dal marito e dai figli. In assenza del mediatore abbiamo fatta leva sulla relazione con me, l’educatrice: ho cercato di creare un clima di calore e fiducia che ha permesso alla donna di sentirsi accolta anche nelle difficoltà di espressione. La famiglia si è sentita compresa. Per ragioni slegate dal ruolo professionale, ero a conoscenza delle persecuzioni dei curdi e della frammentazione del Kurdistan, questione di cui in Italia poco si parla. E la famiglia ha apprezzato la possibilità di essere seguita da qualcuno in grado di comprendere empaticamente il loro vissuto e di parlare apertamente di una vicenda dolorosa e del bisogno di mantenere viva le tradizioni curde, senza per questo rinunciare alla vita sociale della comunità locale. 

Quali strategie avete adottato in assenza del mediatore? 

Abbiamo lavorato, un po’ tra virgolette, noi educatori da “mediatori culturali”, spiegando alle maestre quanto era importante mantenere a casa queste piccole consuetudini che sono il legame con una cultura e una tradizione che sta sparendo e che è vittima di un intento ben preciso di cancellarla. Ricordo anche che il padre era stato anche incarcerato per un mese e torturato. 

Sono stati coinvolti altri professionisti? 

Oltre alla scuola e alle maestre, in ottica di raccordo, abbiamo coinvolto il centro diurno dove i figli svolgono attività di doposcuola, una cooperativa sociale per il percorso personalizzato di inclusione lavorativa, nell’ambito del reddito di dignità (RED) per la madre. Gli episodi di bullismo sono stati gestiti con efficacia, con la collaborazione delle maestre, della famiglia e delle educatrici. Il padre sta per conseguire la patente di guida, la madre ha avuto accesso a un tirocinio professionalizzante presso una casa alloggio per adulti in difficoltà. Il figlio più piccolo ha effettuato con successo l’inserimento al nido e alla relativa mensa. Insomma, la famiglia si è inserita maggiormente nel contesto culturale e di riferimento. 

Quali elementi vi sembrano fondamentali per l’accompagnamento futuro?

Come gruppo abbiamo individuato come fondamentale l’inserimento di un mediatore che abbia competenze in ambito linguistico, culturale e anche di relazione proprio nell’ambito dei servizi sociali; quindi, proprio come se entrasse a far parte delle figure base dei servizi sociali. Ci sembra che questo elemento emerga in maniera trasversale a tutte le situazioni che abbiamo gestito: l’importanza della relazione come strategia per ridurre lo stereotipo, lo stigma, il pregiudizio. Una relazione fatta di ascolto, accoglienza e empatia è “risanante” e quindi un mediatore linguistico e culturale deve avere anche competenze in ambito relazionale. 

(testimonianza di Alessia Raimondi, raccolta durante le giornate di tutoraggio di fine maggio 2025 a Bari, Polo Puglia-Abruzzo-Basilicata)

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